Uncanny valley: perché i volti generati dall’AI ci mettono a disagio

Redazione

C’è qualcosa di strano nei volti creati dall’intelligenza artificiale. A prima vista sembrano realistici, spesso persino belli. Ma basta guardarli un secondo di troppo perché emerga una sensazione difficile da spiegare: qualcosa non torna. Non è paura, non è repulsione esplicita. È un disagio sottile, quasi istintivo. È qui che entra in gioco la uncanny valley.

Il termine viene spesso associato ai robot umanoidi, ma oggi trova la sua espressione più evidente nei volti digitali generati dall’AI: avatar, deepfake, personaggi virtuali, immagini sintetiche che popolano social, pubblicità e video online. Ed è proprio questa nuova ondata visiva a rendere la uncanny valley più attuale che mai.

Cos’è davvero la uncanny valley

La uncanny valley è un concetto introdotto nel 1970 dal roboticista giapponese Masahiro Mori. L’idea è semplice: più qualcosa assomiglia a un essere umano, più ci risulta familiare e accettabile. Ma solo fino a un certo punto. Quando la somiglianza diventa quasi perfetta ma non del tutto, la reazione emotiva crolla improvvisamente. Nasce la “valle perturbante”.

L’androide Sophia, esempio di uncanny valley
L’androide Sophia, sviluppato da Hanson Robotics, è uno degli esempi più noti di uncanny valley: il suo aspetto fortemente realistico può generare disagio in chi lo osserva.
Immagine di ITU Pictures, Geneva, Switzerland

Non è l’artificialità a disturbare, ma il quasi-umano. Un cartone animato è chiaramente finto e non crea problemi. Un volto che sembra umano al 95%, invece, manda segnali contraddittori al nostro cervello. È riconoscibile come persona, ma allo stesso tempo manca di qualcosa di essenziale.

Perché i volti generati dall’AI ci inquietano

I volti creati dall’intelligenza artificiale sono il terreno ideale per la uncanny valley. I modelli generativi sono bravissimi a riprodurre struttura, simmetria e texture, ma faticano ancora con ciò che per noi è naturale: le micro-imperfezioni coerenti.

Gli occhi possono sembrare vuoti, lo sguardo leggermente disallineato, il sorriso non sincronizzato con l’espressione emotiva. La pelle è spesso troppo uniforme, priva di quei piccoli segnali di vita che associamo inconsciamente a un essere umano reale. Il risultato è un volto che sembra vivo, ma non lo è davvero.

Il fenomeno uncanny valley è verosimilmente una delle cause principali che ha portato le critiche allo spot AI di McDonald: leggi Spot pubblicitari con AI: cosa insegnano i casi Coca-Cola e McDonald’s

Il cervello umano è estremamente allenato a leggere i volti. È uno strumento evolutivo fondamentale per riconoscere intenzioni, emozioni, pericoli. Quando questi segnali risultano ambigui o incoerenti, scatta una risposta di allerta. La uncanny valley non è una stranezza culturale: è una reazione profonda, quasi automatica.

Non solo immagini: avatar, video e deepfake

L’effetto uncanny valley diventa ancora più evidente quando il volto AI si muove. Nei video generati artificialmente, nei deepfake o negli avatar parlanti, il problema non è tanto l’aspetto statico quanto la dinamica emotiva. Un micro-ritardo nel battito di ciglia, una rigidità impercettibile nei muscoli facciali, una voce che non “abita” davvero quel volto.

Più l’AI cerca di imitare l’essere umano in modo realistico, più rischia di cadere nella uncanny valley. È un paradosso: il progresso tecnologico non elimina il problema, lo rende più evidente. Ogni miglioramento avvicina il modello alla soglia critica in cui l’illusione si rompe.

Dai volti digitali ai robot umanoidi

I robot umanoidi condividono lo stesso problema, ma oggi sono quasi un caso secondario. I volti generati dall’AI sono ovunque, mentre i robot restano confinati a laboratori, fiere o contesti industriali. Eppure il meccanismo psicologico è identico.

Quando qualcosa è quasi umano, ma non del tutto, il nostro cervello lo percepisce come una minaccia. È l’uncanny valley: il punto in cui il realismo dell’AI smette di rassicurare e inizia a inquietare.

Quando un robot o un avatar ci appare troppo simile a noi, senza esserlo davvero, il disagio nasce dal conflitto percettivo: il cervello non riesce a decidere se sta interagendo con qualcosa di vivo o di artificiale. È questa ambiguità, più che la tecnologia in sé, a rendere la uncanny valley così potente.

Perché la uncanny valley è un tema culturale

Oggi la uncanny valley non riguarda solo l’ingegneria o l’AI. È un tema che attraversa cinema, videogiochi, pubblicità, social media e identità digitale. Ogni volta che un volto artificiale entra in uno spazio umano, ci costringe a confrontarci con una domanda scomoda: cosa rende davvero “umano” un volto?

Non è una questione di realismo grafico, ma di presenza, imperfezione, intenzionalità. Finché l’AI non riuscirà a replicare questi elementi in modo credibile, la uncanny valley continuerà a esistere. E forse non è nemmeno un problema da risolvere del tutto, ma un limite utile, un segnale che ci ricorda la differenza tra simulazione e vita.

In sintesi

La uncanny valley è una reazione umana. I volti generati dall’AI ci mettono a disagio non perché siano brutti o mal fatti, ma perché sono troppo vicini a noi senza esserlo davvero. È in quello spazio ambiguo, tra riconoscimento e rifiuto, che nasce l’inquietudine. E proprio lì si gioca una delle sfide culturali più interessanti dell’era digitale.

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